Intelligenza artificiale e giornalismo: otto giornalisti su dieci chiedono regole chiare

L’intelligenza artificiale sta rivoluzionando il mondo dell’informazione, ma i giornalisti italiani chiedono chiarezza e regole precise. Otto su dieci ritengono necessaria una regolamentazione dell’IA generativa e chiedono trasparenza nell’indicazione dei contenuti prodotti o modificati con questi strumenti. È quanto emerge dalla ricerca “L’IA nella professione giornalistica”, realizzata dall’Ordine nazionale dei giornalisti in collaborazione con l’Università LUMSA, con l’obiettivo di analizzare l’impatto della tecnologia sul settore dell’informazione.

Il profilo del campione e il livello di conoscenza dell’IA

L’indagine, condotta tra novembre 2024 e gennaio 2025, ha coinvolto 972 giornalisti tra professionisti e pubblicisti, con un’età media tra i 43 e i 58 anni. Il 63,3% dei rispondenti è pubblicista, mentre il 36,7% è giornalista professionista. La maggior parte lavora in piccole redazioni (1-10 giornalisti) e con contratti atipici.

Nonostante il dibattito sull’intelligenza artificiale sia in crescita, il livello di familiarità con questi strumenti è ancora basso. L’unico ambito con una diffusione significativa è la traduzione automatica, probabilmente per la sua immediata utilità nel lavoro quotidiano. Strumenti avanzati come il fact-checking automatizzato, la gestione dei social media e la generazione di contenuti audiovisivi vengono ancora utilizzati sporadicamente.

IA tra opportunità e rischi

I giornalisti riconoscono alcuni vantaggi dell’IA nel loro lavoro: il 63,3% ne apprezza la capacità di velocizzare la produzione di contenuti, mentre il 60,8% la considera utile per raccogliere informazioni. Tuttavia, solo il 20% ritiene che l’intelligenza artificiale possa migliorare la verifica delle fonti, confermando l’importanza del ruolo umano nel controllo delle notizie.

Le principali preoccupazioni riguardano la qualità dell’informazione: il 50,2% teme un aumento di contenuti di bassa qualità, mentre altri sottolineano il rischio di una maggiore diffusione di fake news e il possibile ampliamento del divario generazionale nelle redazioni.

Una forte richiesta di formazione

Un dato significativo emerso dalla ricerca è l’interesse per la formazione sull’uso dell’IA: il 70% dei giornalisti si dichiara molto interessato a partecipare a corsi specifici, mentre un altro 20% è moderatamente interessato. Tra le priorità formative richieste, spiccano un corso introduttivo sull’IA (30,2%), l’uso degli strumenti di IA per la raccolta e l’analisi dei dati (28,7%) e il fact-checking automatizzato (15,7%).

Barachini: “Superare la dicotomia tra rischi e opportunità”

Alla presentazione della ricerca presso la LUMSA è intervenuto, con un videomessaggio, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega all’Editoria, Alberto Barachini, che ha sottolineato l’importanza di trovare un equilibrio tra innovazione e regolamentazione.

“Dobbiamo superare la dicotomia tra rischi e opportunità e lavorare affinché l’IA possa svilupparsi nel miglior modo possibile per il giornalismo,” ha dichiarato Barachini. Il governo sta lavorando a un disegno di legge che prevede tre pilastri fondamentali: la difesa del copyright per garantire il sostegno economico al settore, l’obbligo di identificare chiaramente i contenuti modificati con IA e l’introduzione del reato di deepfake per contrastare la manipolazione delle informazioni.

“In un’epoca in cui la fiducia nel giornalismo è messa alla prova, è fondamentale preservare l’integrità del sistema informativo e formare nuovi professionisti con competenze digitali avanzate. L’IA deve essere uno strumento al servizio del giornalismo, non una minaccia alla sua essenza,” ha concluso il sottosegretario.


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Regolamentare il potere digitale: la sfida delle tecnologie emergenti

Dall’inizio del XXI secolo, il progresso tecnologico ha trasformato profondamente la società, rivoluzionando le modalità di comunicazione, produzione e interazione sociale. L’accesso diffuso a Internet, la nascita delle piattaforme digitali e l’avvento dell’intelligenza artificiale (IA) hanno reso il mondo più interconnesso, ma anche più vulnerabile a nuove forme di concentrazione del potere economico e decisionale.

Se da un lato la tecnologia ha aperto opportunità senza precedenti, dall’altro ha sollevato questioni complesse su privacy, sorveglianza, manipolazione delle informazioni e concentrazione del potere in poche mani. Il cuore del problema è come bilanciare innovazione e regolamentazione, evitando che la tecnologia diventi strumento di esclusione e dominio.

Il potere degli algoritmi e la regolamentazione tardiva

L’intelligenza artificiale è oggi una tecnologia pervasiva, impiegata in settori strategici che vanno dalla sanità alla sicurezza, dalla finanza alla pubblica amministrazione. I sistemi di riconoscimento facciale, i modelli predittivi per la gestione del rischio e gli algoritmi che influenzano le scelte di consumo sono solo alcuni esempi del ruolo crescente dell’IA nella società. Tuttavia, il potere algoritmico nasce e si sviluppa prevalentemente in un contesto privatistico, dominato da grandi corporation che estraggono valore dai dati personali.

Questa dinamica ha portato a un fenomeno di concentrazione del potere senza precedenti: le grandi piattaforme digitali controllano enormi quantità di informazioni e influenzano in modo significativo le economie nazionali e le democrazie. Le autorità di regolamentazione, spesso in ritardo rispetto all’evoluzione tecnologica, faticano a rispondere con normative adeguate, lasciando aperta la questione su come garantire un accesso equo alle risorse digitali e proteggere i diritti fondamentali dei cittadini.

Tecnologia e società: progresso o disuguaglianza?

Il progresso tecnologico è sempre stato un motore di cambiamento sociale, ma non necessariamente sinonimo di progresso umano. La storia dimostra che ogni innovazione porta con sé vincitori e vinti, creando nuove infrastrutture e nuove forme di potere. Se l’invenzione del motore a vapore e dell’elettricità hanno rivoluzionato l’economia e migliorato le condizioni di vita, la rivoluzione digitale pone sfide inedite: la dematerializzazione delle comunicazioni e la monetizzazione dei dati personali stanno ridefinendo il concetto stesso di autonomia individuale e collettiva.

Gli effetti negativi della concentrazione di potere digitale sono già evidenti: dal controllo monopolistico delle informazioni ai rischi per la sicurezza informatica, dall’uso distorto degli algoritmi per influenzare opinioni e comportamenti fino alla creazione di nuove disuguaglianze sociali.

Governo dell’IA: un approccio interdisciplinare

La regolamentazione dell’intelligenza artificiale e delle piattaforme digitali non può essere affrontata solo da un punto di vista tecnico o giuridico, ma richiede un approccio interdisciplinare che coinvolga tecnologi, giuristi, economisti ed esperti di etica.

Un passo fondamentale in questa direzione è lo sviluppo di un quadro normativo che promuova la trasparenza e la responsabilità nell’uso degli algoritmi. Le recenti normative europee, come il Regolamento sull’Intelligenza Artificiale (AI Act), cercano di stabilire principi chiari per garantire che l’IA sia utilizzata in modo sicuro ed equo. Tuttavia, resta ancora molto da fare per evitare che la regolamentazione si limiti a una reazione tardiva ai problemi emergenti, invece di prevenire il consolidamento di nuovi squilibri di potere.

Un futuro basato su equità e partecipazione

Per controllare il potere digitale e garantire un accesso equo alle infrastrutture tecnologiche, è necessario un impegno collettivo che ponga al centro valori pubblici e umanistici. La partecipazione attiva dei cittadini ai processi decisionali, la promozione di un’economia digitale più inclusiva e l’integrazione di principi etici nello sviluppo delle nuove tecnologie rappresentano strumenti essenziali per affrontare le sfide del futuro.

L’intelligenza artificiale e le tecnologie digitali possono essere una leva straordinaria di progresso, ma solo se governate con regole chiare, trasparenti e orientate al bene comune. Il dialogo tra innovazione e regolamentazione non deve essere visto come un ostacolo allo sviluppo, ma come un’opportunità per costruire una società digitale più equa e sostenibile.


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AI Act: l’Europa tra divieti e linee guida

Dal 2 febbraio 2024 è ufficialmente iniziata la prima fase attuativa dell’AI Act (Regolamento UE 2024/1689), il primo quadro normativo europeo per disciplinare l’uso dell’Intelligenza Artificiale. Pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale UE lo scorso luglio, il regolamento introduce misure graduali per garantire un utilizzo sicuro e responsabile della tecnologia AI, prevedendo anche divieti per sistemi considerati ad alto rischio.

Tra le prime disposizioni entrate in vigore rientrano quelle relative alle pratiche vietate (art. 5), che impediscono l’uso di applicazioni IA ritenute a “rischio inaccettabile”. In particolare, il divieto riguarda strumenti capaci di manipolare il comportamento umano, sistemi di riconoscimento biometrico atti a classificare le persone e applicazioni che analizzano le emozioni nei luoghi di lavoro. Si tratta di un primo passo fondamentale nella tutela dei diritti fondamentali nell’Unione Europea, ma la piena applicazione del regolamento arriverà solo il 2 agosto 2026, attraverso fasi successive.

Le prossime tappe dell’AI Act

Dal prossimo agosto entreranno in vigore ulteriori disposizioni riguardanti le autorità di notifica, le norme specifiche per i sistemi di IA ad uso generale, il quadro di governance e il regime sanzionatorio. Uno degli strumenti chiave per accompagnare questa fase sarà il Codice di Condotta, un documento che definirà criteri e indicatori per la valutazione della conformità ai requisiti normativi.

L’Ufficio AI della Commissione Europea, incaricato di supervisionare l’attuazione dell’AI Act, ha avviato quattro gruppi di lavoro composti da esperti indipendenti per la stesura del Codice di Condotta. Questi gruppi analizzeranno aspetti cruciali come la trasparenza, la governance dei modelli di AI ad uso generale (GPAI), il rispetto del diritto d’autore e la gestione dei rischi associati all’IA. Il documento definitivo è atteso per la fine di aprile.

Un regolamento complesso con impatti su imprese e professionisti

L’AI Act rappresenta una sfida significativa per imprese e professionisti del settore. Con le sue 144 pagine, 113 articoli e 180 considerando, il regolamento è un testo normativo articolato, che impone alle aziende di verificare la conformità dei propri prodotti AI e di adattare le pratiche contrattuali nelle forniture e negli acquisti di componenti AI.

Per questo motivo, il Codice di Condotta è atteso con particolare interesse dagli operatori del mercato, che necessitano di linee guida chiare e applicabili. Oltre a fornire strumenti di valutazione e mitigazione dei rischi, il documento avrà il compito di semplificare l’adozione delle nuove norme e di ridurre l’esposizione delle aziende a sanzioni, che possono essere molto onerose.

Infine, il regolamento pone nuove sfide anche per i professionisti della consulenza legale e tecnologica. La crescente complessità delle tecnologie AI richiede competenze specifiche, spesso non ancora diffuse tra gli esperti del settore. La formazione e l’aggiornamento continuo diventeranno elementi essenziali per supportare le imprese nella corretta applicazione della normativa e per garantire un equilibrio tra innovazione e tutela dei diritti nell’ecosistema digitale europeo.


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Google-Enel, la Corte Ue conferma l’abuso di posizione dominante

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha stabilito che il rifiuto di una piattaforma digitale in posizione dominante di garantire l’interoperabilità a un’applicazione di terzi può costituire un abuso, a meno che non vi siano valide ragioni tecniche o di sicurezza. Il verdetto arriva con la sentenza sulla causa C-233/23, scaturita da un contenzioso tra Google e l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (Agcm) italiana.

Il caso riguarda JuicePass, un’app di Enel per la gestione delle stazioni di ricarica per veicoli elettrici. Enel aveva chiesto l’integrazione con Android Auto, la piattaforma di Google per l’uso delle app sugli schermi delle auto, ma il colosso digitale aveva negato l’interoperabilità. L’Agcm aveva sanzionato Google con una multa superiore ai 100 milioni di euro, ritenendo il rifiuto anticoncorrenziale.

Secondo la Cgue, il diniego può essere considerato abuso anche se l’app può funzionare senza la piattaforma dominante, poiché la visibilità garantita da quest’ultima influisce sull’attrattività del servizio per il pubblico. Tuttavia, Google avrebbe potuto giustificare il rifiuto dimostrando rischi concreti per la sicurezza o difficoltà tecniche insormontabili.

Ora il Consiglio di Stato dovrà decidere se Google abbia abusato della sua posizione di mercato o se il rifiuto fosse legittimo. La sentenza rappresenta un importante precedente per il settore digitale e per le regole sulla concorrenza nell’ecosistema delle piattaforme online.


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Corte Ue: tetto del 4% sulle provvigioni immobiliari legittimo, ma con limiti

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha stabilito che il diritto comunitario non impedisce agli Stati di fissare un tetto massimo del 4% sulle provvigioni delle agenzie immobiliari. Tuttavia, tale misura deve essere giustificata da motivi di interesse generale e non devono esistere alternative meno restrittive per ottenere lo stesso risultato.

La sentenza nasce da un caso sloveno in cui la legge nazionale limita le commissioni al 4% del prezzo di vendita o di locazione, con un massimo pari a una mensilità d’affitto. La Corte costituzionale slovena, dubbiosa sulla conformità della norma alla direttiva Ue sui servizi, ha chiesto un parere ai giudici di Lussemburgo.

Secondo la Corte Ue, la misura non è discriminatoria e può favorire l’accessibilità agli alloggi e la trasparenza dei prezzi, proteggendo i consumatori, specialmente quelli più vulnerabili. Ora spetterà alla Corte costituzionale slovena verificare se il limite imposto sia effettivamente necessario o se esistano soluzioni meno restrittive.


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Notifica via PEC fallita: il tribunale deve ripeterla se la causa è ignota

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 8361 depositata il 28 febbraio 2025, ha stabilito che in caso di notifica via PEC non andata a buon fine per cause sconosciute, il tribunale deve procedere a un nuovo invio. La decisione, che accoglie il ricorso di un uomo condannato per stalking, ribadisce la tutela del diritto di difesa rispetto alla sola efficienza del processo.

Secondo la V Sezione penale, la notifica dell’avviso di udienza al difensore dell’imputato, se non consegnata per motivi incerti, non può ritenersi valida. La giurisprudenza ha già chiarito che il difensore è responsabile della gestione della propria PEC, ma nel caso in cui la mancata consegna non sia riconducibile né al destinatario né alla cancelleria, la notifica si considera non avvenuta.

Richiamando la Corte Costituzionale (sent. n. 111/2022), la Cassazione sottolinea che il diritto di difesa dell’imputato prevale sulla celerità del processo. Per questo, in assenza di una causa chiara per il mancato recapito, la cancelleria dovrà rinnovare la notifica, sfruttando proprio l’agilità dello strumento telematico.


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Le microimprese pagano l’energia il 165% in più delle grandi aziende

Le microimprese – che costituiscono il 95 per cento del totale delle attività economiche presenti nel Paese in cui è impiegato, al netto del pubblico impiego, il 42 per cento circa degli addetti – nel primo semestre del 2024 hanno pagato l’energia elettrica oltre due volte e mezzo in più delle grandi imprese (pari al +164,7 per cento). Se agli artigiani, ai piccoli commercianti e alle piccolissime imprese con consumi inferiori ai 20 MWh all’anno il costo ha raggiunto, al netto dell’Iva, i 348,3 euro al MWh, le grandi imprese, con consumi che oscillano tra i 70mila e i 150mila MWh all’anno, hanno pagato “solo” 131,6 euro al MWh. A denunciarlo è l’Ufficio studi della CGIA.

  • Abbiamo le bollette della luce più care dell’Eurozona

A differenza degli altri Paesi dell’Area dell’Euro, il prezzo dell’energia elettrica in capo alle nostre microimprese è il più alto di tutti. Se in Italia nel primo semestre del 2024 il costo in euro per MWh era di 348,3, la media dei 20 paesi monitorati dall’Eurostat ha toccato i 294 euro per l’Italia è il 18,5 per cento in più).   Tra i nostri principali competitor, ad esempio, il costo per le piccolissime imprese è superiore a quello  tedesco del 5,8 per cento, al francese del 38 per cento e allo spagnolo del 43,2 per cento.

  • In tutta UE le micro pagano molto di più delle big company

La disparità di prezzo che viene applicata tra le micro e le grandi imprese non è una “distorsione” solo italiana. Anche nel resto d’Europa le differenze di costo premiano i grandi a discapito dei piccoli. Se, come dicevamo più sopra, da noi le microimprese pagano l’energia elettrica il 164,7 per cento in più rispetto alle big company, in Germania il differenziale è del +136,2 per cento, in Spagna del quasi +200 per cento e in Francia del +242 per cento. Detto ciò, va segnalato che rispetto ai nostri principali concorrenti, da noi il peso economico/occupazionale delle micro imprese è talmente elevato da non avere eguali nel resto d’Europa.

  • Perché in Italia i piccoli sono più penalizzati

 

In merito alle tariffe dell’energia elettrica, ad aver aumentato lo storico differenziale tra piccole e grandi imprese ha contribuito l’entrata in vigore nel 2018 della riforma degli energivori. L’effetto prodotto da questa novità legislativa, che prevede un costo agevolato dell’energia elettrica per le grandi industrie, di fatto ha ridotto notevolmente a queste ultime la voce “tasse e oneri”, ridistribuendone il carico a tutte le altre categorie di imprese escluse dalle agevolazioni.  E’ altresì vero che, a seguito delle misure messe in campo successivamente dal Governo Draghi, questo gap si è ridotto. Va altresì ricordato che nel mercato libero le offerte di prezzo possono interessare solo la componente energia; le altre voci di spesa – come le spese di trasporto, gli oneri di sistema, la gestione del contatore etc. – sono stabilite periodicamente dall’Autorità per l’Energia e sono uguali per tutti i fornitori.

  • Incidono le tasse e gli oneri

Rispetto agli altri paesi europei, ad appesantire le nostre bollette della luce sono, in particolare, il peso delle tasse e degli oneri che da noi incide, sul costo al MWh, per il 18,4 per cento, contro il 14,7 in Germania, l’8,5 per cento in Spagna e il 3,5 in Francia. L’incidenza media presente nell’Eurozona è del 9,6, poco meno della metà della quota presente in Italia. Se invece la comparazione la facciamo tra piccolissime e grandi imprese italiane, con il costo totale dell’energia elettrica pari a 100, l’incidenza delle tasse/oneri e anche dei costi di rete[5] in capo alle micro è tre volte superiore a quella riconducibile alle grandi realtà produttive.

  • Nel 2024 prezzi del gas e dell’energia in calo, ma in ripresa nel 2025

Rispetto ai dati medi registrati nel 2023, l’anno scorso sia il prezzo del gas (-13,8 per cento) sia quello dell’energia elettrica (-14,6 per cento) hanno subito una sensibile contrazione. Tuttavia, a partire dagli ultimi mesi del 2024 sino ad oggi, i prezzi sono tornati a salire costantemente; la media dei primi 25 giorni di questo mese ci segnalano che il costo medio del gas naturale ha toccato i 54 euro per MWh, mentre quello dell’energia ha raggiunto i 152 euro per MWh. Se confrontiamo questi dati con quelli relativi allo stesso mese del 2024, il primo è cresciuto del +93 per cento, il secondo del +73 per cento. Certo, nulla a che vedere con i picchi massimi toccati ad agosto del 2022 quando il gas raggiunse i 233 euro e l’energia elettrica i 543 euro.

  • Oltre 5 milioni di italiani in povertà energetica (PE). La metà è al Sud

Sono quasi 2,4 milioni le famiglie italiane in povertà energetica (PE). Stiamo parlando di 5,3 milioni di persone che nel 2023 vivevano in abitazioni poco salubri, scarsamente riscaldate d’inverno, poco raffrescate d’estate, con livelli di illuminazione scadenti e con un utilizzo molto contenuto dei principali elettrodomestici bianchi[6]. I nuclei familiari più a rischio sono costituiti da un elevato numero di persone, che si trovano in condizioni di disagio economico e le abitazioni in cui vivono sono in cattivo stato di conservazione. A livello territoriale la situazione più critica si verifica in Calabria, dove il 19,1 per cento delle famiglie, composte da quasi 349mila persone, si trovava in condizioni di PE. Seguono la Basilicata (17,8 per cento) il Molise (17,6 per cento), la Puglia (17,4 per cento) e la Sicilia (14,2 per cento). Le regioni, invece, meno interessate da questo fenomeno sono il Lazio (5,8 per cento del totale delle famiglie), Friuli Venezia Giulia (5,6 per cento) e, in particolare, Umbria e Marche (entrambe con il 4,9 per cento). Due anni fa, il dato medio nazionale era pari al 9 per cento. A dirlo è l’Ufficio studi della CGIA che ha elaborato i dati estrapolati dal Rapporto OIPE 2023.

  • Identikit del capofamiglia in PE: disoccupato, pensionato o autonomo

Le principali condizioni professionali del capofamiglia che si trova in PE sono, in linea di massima, tre: disoccupato, pensionato solo e in molti casi, sottolinea la CGIA, quando lavora lo fa come autonomo. Va infine sottolineato che i nuclei più a rischio PE, soprattutto nel Sud, sono quelli che utilizzano il gas quale principale fonte di riscaldamento. Coloro che invece utilizzano altri combustibili (bombole a gas, pellet, gasolio, legna, kerosene, etc.), presentano valori percentuali di rischio più contenuti.


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Social scoring: stop dall’AI Act per banche e assicurazioni

La Commissione Europea ha pubblicato il 4 febbraio scorso le Linee Guida per garantire la conformità all’articolo 5 del Regolamento AI Act, che vieta specifiche pratiche nell’uso dei sistemi di intelligenza artificiale. Tra queste, spicca il divieto di social scoring, ossia l’uso di algoritmi che valutano gli individui in base a caratteristiche personali o comportamenti sociali.

Il social scoring, noto per la sua applicazione controversa in alcuni Paesi, viene bandito nell’UE quando porta a trattamenti discriminatori o sproporzionati. Questo divieto riguarda anche banche e assicurazioni, che potrebbero essere tentate di utilizzare tali sistemi per valutare l’affidabilità creditizia o i premi assicurativi.

L’AI Act punta a prevenire l’uso improprio di questi sistemi, tutelando i cittadini da decisioni basate su valutazioni algoritmiche che potrebbero penalizzarli ingiustamente. Le Linee Guida dell’UE, sebbene non vincolanti, rappresentano un importante punto di riferimento per l’interpretazione della norma e preparano il terreno per futuri sviluppi giurisprudenziali in materia di intelligenza artificiale.

Questo provvedimento si inserisce in un contesto normativo più ampio che mira a regolamentare l’uso dell’AI in settori sensibili, evitando che tecnologie avanzate possano ledere diritti fondamentali o rafforzare disuguaglianze sociali.

Le nuove disposizioni sottolineano la necessità per le imprese di adeguarsi alle norme europee per evitare sanzioni e proteggere la fiducia dei consumatori.


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Ispezioni antiriciclaggio nel mirino della CEDU

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha emesso una sentenza destinata a fare storia in materia di antiriciclaggio, mettendo in discussione le modalità di ispezione della Guardia di Finanza. La decisione, resa nota il 6 febbraio scorso, evidenzia criticità nelle procedure ispettive adottate dalle autorità italiane, ritenute in contrasto con i principi fondamentali della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU).

Il caso

Al centro della vicenda giudiziaria vi è l’operato della Guardia di Finanza nelle ispezioni fiscali condotte presso sedi aziendali e professionali. La Corte ha censurato l’eccessiva discrezionalità concessa dalle normative italiane (in particolare dall’art. 52 del D.P.R. n. 633/1972 e dall’art. 33 del D.P.R. n. 600/1973), che permette alle autorità di accedere e sequestrare documentazione contabile senza adeguate garanzie procedurali.

La Corte ha rilevato l’assenza di un controllo giudiziario effettivo, sia preventivo che successivo, su tali operazioni, violando così l’articolo 8 della CEDU, che tutela il diritto al rispetto della vita privata e familiare, anche nei luoghi di lavoro. Questa mancanza di tutele ha portato la Corte a dichiarare inadeguato il quadro giuridico italiano, evidenziando il rischio di abusi o arbitrarietà da parte delle autorità fiscali.

L’impatto sulla normativa antiriciclaggio

La sentenza non si limita alle ispezioni fiscali, ma ha implicazioni dirette anche sul settore antiriciclaggio. Infatti, le modalità operative della Guardia di Finanza in materia antiriciclaggio si basano proprio sull’art. 52 del D.P.R. n. 633/1972, richiamato dall’art. 9 del D.lgs. n. 231/2007. Questo collegamento normativo impone un adeguamento delle procedure ispettive, affinché rispettino i principi di legalità, proporzionalità e giusto processo sanciti dalla CEDU.

I principi violati e le conseguenze

Secondo la Corte di Strasburgo, la normativa italiana non garantisce sufficienti tutele procedurali per le ispezioni antiriciclaggio, in quanto:

  • La legge risulta poco chiara e accessibile, violando il principio di determinatezza (art. 7 CEDU);
  • Le autorità fiscali godono di un potere discrezionale illimitato, in contrasto con lo stato di diritto;
  • Manca un effettivo riesame giudiziario delle ispezioni, rendendo la difesa dei soggetti ispezionati inefficace.

Queste criticità rischiano di esporre l’Italia a ulteriori sanzioni internazionali se non si adotteranno correttivi normativi adeguati.

Un monito per il legislatore italiano

La sentenza rappresenta un chiaro monito per il legislatore italiano: le modalità di accertamento delle violazioni antiriciclaggio devono essere riviste per garantire il rispetto dei diritti umani, dalla presunzione di innocenza al giusto procedimento (art. 6 CEDU). In caso contrario, le ispezioni della Guardia di Finanza potrebbero continuare a violare il diritto sovranazionale, con conseguenti ripercussioni legali ed economiche per l’Italia.

La pronuncia della Corte Europea apre quindi a un necessario ripensamento dell’intero impianto normativo e operativo delle ispezioni antiriciclaggio, affinché siano rispettati i diritti fondamentali sanciti dalla CEDU.


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Delaware: niente fair use per l’AI che si allena con dati protetti da copyright

La Corte distrettuale del Delaware ha recentemente emesso una sentenza destinata a far discutere nel mondo della tecnologia e della proprietà intellettuale. Nel caso che ha visto contrapposti il Thomson Reuters Centre GmbH e West Publishing Corp. contro Ross Intelligence Inc., il Giudice Bibas ha stabilito che Ross Intelligence ha violato il copyright di Thomson Reuters, respingendo la difesa basata sul fair use.

Il nodo della questione: come si allena un’Intelligenza Artificiale?

Le intelligenze artificiali necessitano di enormi quantità di dati per essere addestrate. In questo contesto, il text and data mining (TDM) gioca un ruolo cruciale, poiché consente l’estrazione di contenuti da opere creative preesistenti per creare copie a scopo di training. Tuttavia, questo processo solleva questioni spinose riguardo alle potenziali violazioni del diritto d’autore.

Fair use: perché non si applica in questo caso?

Negli Stati Uniti, la dottrina del fair use consente l’utilizzo di opere protette da copyright per scopi specifici, come l’insegnamento e la ricerca, senza necessità di autorizzazione da parte del titolare dei diritti. Tuttavia, nel caso del Delaware, il giudice ha escluso l’applicabilità del fair use poiché Ross Intelligence ha utilizzato il database di Westlaw per addestrare la propria intelligenza artificiale, competendo così direttamente con il prodotto di Thomson Reuters.

L’approccio europeo e le implicazioni globali

Diversamente dagli Stati Uniti, l’Unione Europea disciplina il text and data mining attraverso la Direttiva Copyright (n. 790/2019), che prevede eccezioni specifiche al diritto d’autore per consentire operazioni di TDM in contesti di ricerca e innovazione. Questa differenza normativa potrebbe spingere le aziende tecnologiche a rivalutare le proprie strategie globali di sviluppo dell’intelligenza artificiale.

Quale futuro per l’AI?

La sentenza del Delaware potrebbe avere conseguenze significative sull’evoluzione del settore AI, soprattutto per le aziende che si affidano al TDM per addestrare i propri algoritmi. La necessità di ottenere licenze dai titolari dei diritti d’autore potrebbe rallentare lo sviluppo tecnologico o aumentarne i costi.

Questa decisione segna un punto di svolta nella giurisprudenza americana sul rapporto tra copyright e intelligenza artificiale, ponendo un interrogativo cruciale: fino a che punto sarà possibile allenare l’AI utilizzando dati protetti da copyright?


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